William Ghizzoni | webdesigner: Giorgio Sicurella |
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Mi decido a pubblicare questa sezione adesso (fine 2017), a distanza di cinque anni da quando ho aperto questo sito. Ho esitato a lungo proprio perché questa è la parte più "personale", e quindi privata e perfino intima, della mia biografia. Nel frattempo Internet ha mostrato, oltre ai suoi innegabili pregi, anche molti difetti e pericoli, al punto di farmi diventare ancora più esitante e diffidente nei suoi confronti. Farò così: a mo' di compromesso: sarò ricco di particolari, spero non troppo, per la parte più "lontana" dalla mia vita personale, quella relativa all'infanzia e alla gioventù. Dal momento invece della laurea in poi, diventerò più schematico e scheletrico, riservandomi semmai di apportare qui aggiunte e modifiche se e quando ne avrò voglia - oltre che, ovviamente, se ne avrò possibilità e tempo... Un discorso a parte merita l'argomento "miei famigliari". Loro, i miei famigliari, sono ancora più diffidenti di me nei confronti della Rete, e mi chiedono di non parlare di loro, in questo mio sito. Ne prendo atto e rispetto la loro volontà.
Nevicava, quel giorno. E anche abbastanza forte, dicevano. Cosa del tutto naturale, del resto, per essere un giorno di gennaio, agli 800 metri di quota di Castelnovo ne' Monti, in provincia di Reggio Emilia. Ho scritto "dicevano" perché la cosa mi fu riferita in seguito; io non potevo vederlo di persona, essendo prima nel calduccio del sacco amniotico della mia mammina,e poi con la tipica scarsità visiva dei neonati. Sta di fatto che era freddo e nevicava. Ciononostante, la levatrice arrivò in tempo (già, perché allora si usava così: in ospedale ci si faceva portare, se si riusciva, solo per parti difficilissimi, mentre era normale che venisse a casa la levatrice, che ancora si chiamava così, e non ostetrica come molti anni dopo).
Mia madre, nonostante fosse primipara, se la cavò bene, forse anche un po' con l'aiuto di mio padre, che in quel periodo lavorava come infermiere. E me la cavai anch'io, nonostante fossi piccolo e brutto, sempre per sentito dire in seguito. Uscendo dal mio nascondiglio, comunque, la mia testa si allungò un po', e dovettero risistemarla con qualche manovra manuale. Chissà se il mio cervello ne ha risentito, ed eventualmente come…
Non so bene perché mi chiamarono William. Per una di quelle imperdonabili dimenticanze che capitano nella vita, non l'ho mai chiesto ai miei genitori quand'erano vivi...Ho l'impressione che mio padre volesse fare un po' lo snob, e far mostra di essere acculturato: così si erano chiamati Shakespeare e qualche altro personaggio storico, così si chiamava qualche attore inglese o americano allora in voga (William Powell?)...Sì, era mio padre che decideva i nomi dei figli, come dimostrano anche il secondo e terzo nome che mi vennero dati per legge (Anselmo e Michele, come due suoi zii) e come dimostrano i nomi dati in seguito alle mie sorelle e a mio fratello. Mia madre, Adele, era contenta così: controllava, suppongo, che non fossero nomi strampalati, sorrideva e accettava quello che proponeva il suo Rino ( così chiamava mio padre Quirino: anche lui aveva ricevuto un bel nome altisonante…). Lei, dopo tutto era solo una sartina, mentre mio padre "aveva studiato". Sì, fino alla quinta Ginnasio, in Seminario, dove era stato messo per studiare un po' senza essere a carico della famiglia, e da dove poi era uscito per mancanza di vera vocazione.
Dunque mi sistemarono in qualche modo la testa "a pera". Ma i problemi non finirono lì. Perché nei primi mesi di vita fui colpito da una malattia che allora non aveva ancora un nome e una natura ben definiti. In dialetto era più facile: la malattia era "al simiòt" (lo scimmiotto), un brutta cosa per cui il bambino, anziché crescere, perdeva via via peso e diventava sempre più magro e brutto (oggi sembra che si possa chiamare distrofia infantile, e che sia provocata da allergia al latte materno). La medicina, allora, sembrava impotente, e i miei genitori, al culmine della disperazione, mi portarono da una fattucchiera, sulle pendici della Pietra di Bismantova. Questa sciamana, sembra, mi immerse alcune volte nudo nelle acque di un ruscello locale, mormorando parole magiche, e diede non so quali consigli "dietetici" ai miei. Io non credo, non voglio credere, di essere sopravvissuto per merito di una stregoneria, ma quello che io credo o non credo è irrilevante; sta di fatto che da allora in poi io rifiorii, e 80 anni dopo sono ancora qui a raccontarlo.
Pietra di Bismantova |
Quella che ho raccontato sembra una cosa poco seria, ma nella cultura popolare di allora era invece seria, serissima. Ho fatto qualche ricerca e rintracciato un libro di G.I. Mammi e M. Mazzaperlini, intitolato "La medicina popolare nel reggiano", pubblicato da Diabasis. In questo libro si parla del "simiòt", del modo di curarlo, delle fattucchiere, ecc.. Ne allego qui un passo.
Al Simiòt |
Forse la mia prima foto, insieme a mia madre |
E qui sono con mio padre, qualche tempo dopo, nel 1938 |
I primi ricordi
Non so dire esattamente a quando risalgano i primi ricordi. Alcune cose hanno forse acquisito la parvenza di ricordo a forza di sentirlo dire dai miei, o anche solo guardando le foto di quel primo periodo della mia vita. Perché sì, qualche foto è rimasta. Ovviamente in bianco e nero, ovviamente di qualità tecnica e fotografica molto bassa, ma qualcuno - nel raggio dei parenti e degli amici - una macchina fotografica ce l'aveva, e qualche foto la faceva. Qualcuna magari l'allego qui.
Una cosa che "quasi" mi ricordo era l'attaccamento ad una ragazza che veniva ad imparare i lavori di sartoria da mia madre. La ragazza, che aveva sui 16-17 anni, si chiamava Elda, era molto bella e aveva - sempre per sentito dire - una passione per me. Passione ricambiata, a quanto pare, visto che mia madre mi raccontò molti anni dopo, sogghignando, che io sempre attaccato alle gambe di Elda guardando da sotto in su…. E qui aggiungerò qualcosa su cui ciascuno può fare l'ironia che vuole: dopo la guerra (cioé dopo il 1945), sembra che questa Elda si sia trasferita a Genova, dove si mise a "fare la vita"...Per poi morire, ancora giovane, pochi anni dopo. Povera ragazza sfortunata.
Di ricordi veri, invece, ne ho due, due flash di memoria istantanei ma ben distinti e definiti, anche se risalgono a quando avevo non più di tre anni.
Primo ricordo: mi avevano messo un paio di piccoli sci ai piedi (ovviamente era inverno e c'era ancora neve, a Castelnovo ne' Monti), e ad un certo punto mi ritrovai a dover scendere lo scalone che dava sulla piazza principale del paese. I gradini erano larghi e bassi, ma io ero veramente in difficoltà, e avevo paura.
Secondo ricordo: lungo la mia via era sfuggito di mano al padrone un cavallino, che - probabilmente più spaventato che altro - aveva cominciato a correre in strada. Io mi rifugiai in un portone, con un atrio e una scala in fondo. Beh, il benedetto cavallino si infilò nello stesso portone e nello stesso atrio, e sembrava intenzionato e seguirmi sulle scale che io - col cuore in gola - avevo cominciato di corsa a salire. Poi arrivò il padrone e lo fermò...
Curioso che i miei ricordi più remoti si riferiscano a due situazioni di paura? Mah, sembra di no, se è vero che i ricordi che si infilano nella memoria profonda e vi restano sono quelli legati a forti emozioni. E la paura, la mia paura di allora, era certamente un'emozione profonda.
In corso di preparazione
2. A Reggio Emilia, per poco.
I miei si erano sposati e poi erano andati ad abitare a Castelnovo ne' Monti, ma solo perché mio padre - che prima era infermiere in un Ospedale Psichiatrico a San Colombano al Lambro (Lombardia), era riuscito ad ottenere un lavoro all'Ospedale Sant'Anna appunto di Castelnovo, quindi più vicino a Reggio Emilia laddove vivevano (in realtà a Villa Masone, in un piccolo paese a 7 km) entrambe le famiglie d'origine dei miei. Ma anche da Castelnovo era molto scomodo, allora, andare anche solo a trovare i parenti. L'automobile era praticamente un miraggio, gli autobus (uno al giorno, per andata e ritorno) erano lentissimi e scomodi....
Così, quando mio padre riuscì a trovare un altro lavoro in città a Reggio, vi ci trasferimmo tutti. Era l'inizio del 1941, ed eravamo già quattro, in famiglia (dopo di me era già nata infatti mia sorella Luciana).
A Reggio il lavoro di mio padre era del tutto diverso: adesso era Istitutore (praticamente insegnante) all'Orfanotrofio Comunale.
Andammo ad abitare alla periferia sud della città, in Via Raniero Taddei. Ma vi abitammo poco, neanche due anni.
Ricordi di quel periodo? Ben pochi, in realtà, In fondo alla strada c'era un canale, e i miei si raccomandavano che io ne stessi alla larga, per non correre rischi. In realtà il rischio vero lo corsi in casa. C'era una scala che dal pianterreno portava alle camere, e questa scala aveva una balaustra con corrimano. E io, da bambino irrequieto e imprudente, ci montavo a cavalcioni per scivolare fin giù. Una volta però presi troppa spinta, e caddi a testa in giù da due o tre metri di altezza. Mi rialzai stordito e barcollante per poi ricadere subito a terra: avevo una "commozione cerebrale". Mi portarono all'ospedale, credo, ma poi la cosa si risolse presto al meglio. Ecco, è praticamente l'unico ricordo che mi è rimasto di quel periodo.
E qui comincia un altro periodo significativo della mia vita. Un periodo lungo e importante, quello della mia infanzia, fino all'adolescenza.
Il trasferimento della famiglia da Reggio città a Villa Masone (che d'ora in poi chiamerò solo Masone, come si faceva allora e come si fa ancora oggi, credo) fu dettato da un motivo molto serio: ormai c'era le guerra, da un paio d'anni, e le città - compresa Reggio - erano spesso bersaglio di bombardamenti aerei. Così molte famiglie, se appena potevano farlo, "sfollavano" in campagna, dove il rischio era molto minore. Il fatto di poter sfollare a Masone tornava poi molto a fagiolo: come ho detto, quello era il paese di mia madre e della sua famiglia, e lo era diventato anche di mio padre, da quando - una quindicina di anni prima? - suo zio prete, Don Michele Cervi, ne era stato nominato parroco. Don Cervi si era portato dietro mio nonno Clemente Ghizzoni, che era non solo suo cognato (marito della sorella Zelinda), ma anche il suo sagrestano/campanaro/fattore, e con nonno Clemente si erano trasferiti naturalmente anche i suoi due figli, cioè mio padre e suo fratello Angelo. Un po' lungo da spiegare, ma ci siamo, vero?
Dunque, l'invito a sfollare a Masone ci arrivò proprio da don Cervi (che noi tutti chiamavamo "lo zio prete": lo chiamavo così anch'io, sebbene fosse in realtà mio prozio, e d'ora in avanti lo chiamerò sempre così, lo zio prete), che ci offrì anche ospitalità in un piccolo ambiente della sua canonica.
Il mio racconto della vita a Masone comincia proprio dal trasloco che vi facemmo, caricando i non molti mobili che avevamo su un carretto trascinato da un cavallo.
In realtà per qualche giorno - o forse per qualche settimana - i mobili vennero scaricati nella nostra nuova "casa" in canonica, ma la loro sistemazione richiese qualche tempo, perché mio padre tutte le mattine partiva in bicicletta per Reggio città, dove continuava a lavorare, e tornava alla sera, perciò aveva poco tempo per sistemare i mobili e le masserizie. E così, per qualche tempo mia madre e noi due figli fummo alloggiati nella casa dei genitori di mia madre, al Crocile-Gobellino (incrocio fra le strade per Gavassa e per Pratofontana). Dopo di che prendemmo possesso della nuova "casa".
Ho scritto casa tra virgolette perché chiamarla casa fa avvicinare paurosamente all'eufemismo. Ma come altro chiamarla? Stamberga? Bugigattolo? Oggi la si potrebbe chiamare "monolocale soppalcato", ma poi ci si aspetterebbe qualcosa di diverso...Comunque continuerò a chiamarla "casa" perché lo era, la mia e nostra casa, e come a tutte le case poi avevamo finito per affezionarvici. Di fatto era un locale contiguo al salone della canonica, che era servito fin ad allora come ripostiglio e deposito di prodotti agricoli stagionali. Una stanza a pianterreno di circa 25 metri quadri. Sul fondo, una porta che dava su una scala la quale portava a sua volta alla camera da letto (una stanza ricavata effettivamente soppalcando con un pavimento di assi di legno), di dimensioni uguali al pianterreno. Tutto qui: uno spazio di 50-60 metri quadri, in cui riuscimmo a vivere per 8 anni in quattro, e negli ultimi anni addirittura in 6, perché nel frattempo erano nati anche mio fratello Anselmo e un'altra sorella, Clementina.
Nella stanza principale ci stava, naturalmente, tutto e solo quello che ci serviva: una stufa a legna, una credenza, una vetrina, un tavolo con qualche sedia, e la macchina da cucire di mia madre. E poi, dal 1946 in avanti, addirittura anche un pianoforte verticale. Al piano di sopra, un comò, un armadio, un letto matrimoniale e un letto singolo, nel quale dormivamo mia sorella e io, uno dalla parte della testa e uno da quella dei piedi, scaldandoci a vicenda (il "prete" o "trabiccolo" con lo scaldino pieno di braci era riservato, nei mesi invernali, al lettone dei genitori). Quando arrivarono gli altri fratelli, si trovò il modo di aggiungere nella stessa stanza anche un lettino e una culla…
Inutile parlare di stanza da bagno: non c'era proprio. Per l'igiene, ci si serviva di un catino bianco smaltato, appoggiato su un lavabo a treppiede, sotto al quale stava una brocca pure bianca smaltata, da riempire via via con acqua , calda o molto più spesso fredda. Quanto alle necessità corporali, c'era sotto al letto un pitale, da svuotare ovviamente ogni mattina. E per cose più serie si doveva andare fuori, e fare una trentina di metri per arrivare dietro la canonica alla latrina, nel corpo del piccolo edificio dei "bassi servizi". Qui si trovavano un forno a legna, usato per fare il pane (buonissimo!), una volta alla settimana; poi la lavanderia, con qualche mastello per lavarvi indumenti e biancheria, e all'uopo anche per un bagno caldo; uno staio, comprendente il pollaio e lo spazio per i conigli e occasionalmente anche per un un maiale; e - appunto - la latrina, cioè una stanzetta con un alto gradino sul quale ci si sedeva o ci si accovacciava, sopra un buco che scaricava direttamente nella fossa settica, usata poi anche come concimaia. Carta igienica? Ma va! qualche ritaglio di carta da giornale, quando andava bene, se no foglie da raccogliere lì fuori..... Come avranno fatto i miei genitori ad organizzare la loro e la nostra vita in uno spazio così angusto, francamente non lo so. Io ero un bambino e prendevo quello che c'era, senza pormi grandi problemi. E tutto mi sembrava normale.
Alla casa sono legati vari ricordi. Ne citerò, per ora, un paio.
Primo ricordo: di notte il pavimento della cucina si riempiva di scarafaggi, che uscivano da sotto la scala, e che non c'era modo di eliminare. Così se capitava di alzarci e attraversare la stanza di notte per arrivare all’unico interruttore della luce, se ne calpestava sempre qualcuno.
Secondo ricordo: quando si andava a letto e si spegneva la luce, le ultime cose che i miei occhi vedevano erano la brace della sigaretta di mio padre (che per abitudine ne fumava una a letto, prima di dormire) e poi una statuetta fosforescente della Madonna di Lourdes, che continuava a mandare la sua lucina verdastra dal ripiano sopra il comò. Mi sembrava che mi proteggesse e mi assicurasse una notte tranquilla. Questa statuetta ce l’ho ancora, e ancora emana al buio un lucina fioca e consolatoria.
Chiesa di Masone |
I miei ricordi legati alla guerra sono numerosissimi, e potrei scriverci un intero libro. Vedrò di limitarmi.
L'allarme e i rifugi.
La cosa che emotivamente colpiva di più era il segnale d'allarme che preannunciava l'arrivo di velivoli in grado di bombardare. Il segnale partiva da Reggio città, ma lo sentivamo bene anche a Masone, 7 chilometri a sud-est. A quel punto, entro pochi minuti, era opportuno correre al riparo da qualche parte. Nella maggior parte delle case contadine (e anche in un campo dietro la chiesa dove noi abitavamo) erano stati scavati dei rifugi sotterranei, dissimulati facendovi poi crescere sopra piante di zucca o altri rampicanti. Scavati a mano con vanga e badile, avevano le pareti di terra, e quando pioveva si riempivano d'acqua e di fango. Quante volte, nella fretta di correre al riparo, si saltava in mezzo metro d'acqua...Ma noi, abitanti nella canonica (come naturalmente lo zio prete, la sua perpetua Maria Cilloni e il suo famiglio Rolando Torreggiani), più talvolta anche mio zio Angelo che si trovava lì per qualche ragione, e spesso anche i contadini delle case più vicine alla parrocchia, avevamo un rifugio ben più comodo e soprattutto sicuro - così almeno si pensava. Era il locale alla base del campanile, considerato sicuro perché generalmente i piloti dei bombardieri rispettavano la convenzione di non colpire chiese e ospedali (questi avevano una croce rossa su fondo bianco disegnata sui tetti, le chiese ovviamente erano riconoscibili dal campanile). Inoltre, proprio per reggere il peso della torre e delle campane, le mura perimetrali della base erano spessissime, credo un paio di metri. Riempiendo quasi totalmente le uscite laterali con sacchi di terra, se ne era ricavato uno stanzone in cui potevano rifugiarsi - e anche dormirci, su pagliericci di fortuna, se il pericolo durava tutta la notte - una ventina di persone, o forse più. La cosa un po’ anomala erano le corde delle campane, che penzolavano dall'alto... E devo aggiungere che per me, bambino incosciente, era forse un po' drammatico ma non lo avvertivo come tragico sentire i boati lontani delle bombe che esplodevano e vedere i lampi dei bengala e poi le fiamme delle case incendiate. E addirittura era un divertimento e quasi un piacere trovarmi lì di notte, sdraiato in terra a fianco dei miei amici delle case vicine (i Carretti, Adriano, Ideo...), ovviamente ben svegli, a scherzare fra di noi sottovoce . Il più imbarazzato forse era lo zio prete, che vedevo spesso correre giù dalla scala con un pigiama a mutandoni lunghi. Oggi i preti sono molto più disinvolti, ma allora non era certo normale, per lui, farsi vedere in pigiama dai suoi parrocchiani: il suo carisma, consacrato in genere anche dal latino delle cerimonie religiose e dall'abito talare e dai paramenti sacri, qui veniva impietosamente messo alla prova.
Aerei, bombe e mitraglie
I segni della guerra, naturalmente, erano evidenti dovunque: soldati italiani e soprattutto tedeschi, auto e moto militari, fucili e pistole,...Ma la cosa che colpiva maggiormente la mia immaginazione di bambino erano gli aerei e le loro azioni. C'era anche nella mia zona il mito di un certo aereo solitario, pilotato da un fantomatico Pippo, che arrivava all'improvviso, eludendo a volo basso gli apparati di segnalazione e allarme, e colpiva da vicino i suoi bersagli con bombe e con la mitragliatrice. Una volta questo Pippo, o un suo collega, colpì la chiesa proprio durante una messa. Tutti i fedeli (ma non erano molti) si precipitarono a rifugiarsi sotto il campanile. Io servivo messa come chierico, e quando vidi lo zio prete correre giù dai gradini dell'altare per seguirli feci lo stesso. Ma subito sentii una gran botta nel mezzo della schiena, e caddi a terra semisvenuto: ero stato colpito da un grosso calcinaccio che il bombardamento aveva staccato da un alto cornicione della volta. Portato subito al sicuro, venni soccorso in qualche modo, credo sostanzialmente con impacchi di acqua fredda sulla botta - e cos'altro si poteva fare, in quel luogo e in quel momento? E me la cavai, con tanta paura (forse dei miei ancora più che mia). Se però mi avesse colpito in testa non sarei qui a raccontarlo…
Un'altra volta una bomba cadde all'improvviso sulla ferrovia, a duecento metri da casa nostra, e un grosso sasso, di quelli usati per costruire la massicciata ferroviaria, entrò come un razzo dalla porta d'ingresso aperta,e si schiantò sulla parete di fondo: mia madre e io eravamo a pochi centimetri.
Ancora un episodio. Io ero andato per qualche ragione nella casa contadina vicina, dall'altra parte della strada (vi abitavano "i Mingòun", il cui cognome vero credo fosse Messori). Ad un certo punto suona l'allarme aereo, e io mi metto a correre verso casa. Però subito, fatti pochi metri, si sente il rombo di un aeroplano che arriva, velocissimo e a volo basso basso, e comincia a mitragliare la strada. Io, che sulla strada c'ero, mi butto d'istinto nel fosso laterale, e i colpi mi sfiorano, a un metro di distanza...Più tardi, passata la paura (i miei erano terrorizzati), andai a raccogliere i bellissimi bossoli rimasti sul terreno. Già, perché quello di raccogliere e conservare i bossoli, sebbene vietato per legge, che imponeva invece di consegnarli alle autorità, era una cosa molto comune fra noi ragazzi: belli, lucenti, di varie misure, si prestavano ad un sacco di giochi infantili.
L'8 settembre.
Fu il giorno della firma dell'armistizio, preso malissimo dai tedeschi, che da ex alleati (mal tollerati) quali eravamo prima, ci considerarono nemici tout court, seppure in casa nostra.
Il nostro esercito era allo sbando, e da quel momento valse il criterio del "tutti a casa". Naturalente i tedeschi e i repubblichini di Salò erano attivissimi a ricercare e rastrellare i "disertori" e spedirli nei campi di concentramento in Germania, se non a fucilarli lì per lì. Ebbene, un paio di notti dopo l'8 settembre si sentì bussare sommessamente alla porta di casa. I miei erano molto allarmati e sospettosi: qualcuno che bussava di notte non era quasi mai un buon segno, anzi...ma quando mio padre si alzò e tese l'orecchio dietro la porta, chiedendo "Chi è?", si sentì rispondere, sempre a bassa voce "Sono io, Alide!", e naturalmente aprì in gran fretta, il più silenziosamente possibile. Era infatti mio zio Alide, il fratello di mia madre, che aveva anch'egli lasciato il servizio militare, era salito su un terno merci che passava da Masone, e si era buttato giù dal treno (che per fortuna andava piuttosto piano), cadendo, giù dalla scarpata della ferrovia, in mezzo ad una siepe di rovi. E infatti era ricoperto di graffi sanguinanti sul viso e sul corpo, e aveva gli abiti tutti strappati (erano abiti civili, che aveva rimediato da una contadina vedova caritatevole, lasciandole la sua divisa, col tascapane, la gavetta, e - credo - anche il fucile: non voleva essere riconosciuto subito come soldato disertore qualora fosse stato fermato dai tedeschi...).
Lo zio fu ripulito, lavato e rifocillato e per quella notte dormì da noi, per tornare poi a casa sua la mattina dopo, ma stando sempre attento a non farsi scovare qualora si avvertisse nelle vicinanze l'odore di tedeschi e/o di repubblichini.
I tedeschi
Che le chiese fossero un posto abbastanza al sicuro dai bombardamenti non lo sapevamo soltanto noi civili: lo sapevano anche i tedeschi, eccome! Al punto che, diventata l'Italia un paese per loro nemico, e quindi d'occupazione, pensarono bene di stabilire in canonica il comando di un loro reparto. E così, per qualche tempo - settimane? forse mesi?- nostri indesideratissimi vicini di casa furono ufficiali e sottufficiali tedeschi con qualche elemento di truppa (però la maggior parte di loro andavano poi a dormire nelle tende del loro campo, non lontano).
Lo zio prete eroico
Una brutta mattina, all'alba, i tedeschi scoprirono il cadavere di un loro soldato, isolato, ucciso da sconosciuti nella notte. Erano stati evidentemente alcuni partigiani, che ovviamente agivano in clandestinità. Così i tedeschi decisero sbrigativamente di cercare il colpevole col metodo della decimazione: fermarono le prima 10 persone che passavano per quella strada la mattina stessa, le radunarono davanti al loro comando (cioè davanti a casa nostra!) e sparsero la voce che le avrebbero fucilate se non saltava fuori il colpevole dell'omicidio. Si dà il caso che fra quelle 10 persone ci fossero anche mio padre (che si alzava presto per andare a lavorare a Reggio in bicicletta: adesso non era più Istitutore nel collegio, bensì disegnatore alle Officine Reggiane), e mio zio, cioè suo fratello Angelo, che era venuto a suonare le campane all'alba (aveva ereditato i compiti professionali di suo padre Clemente, quindi era campanaro, sagrestano e fattore del poderetto annesso alla chiesa). Il colpevole non usciva, e l'angoscia - degli ostaggi e dei loro parenti che arrivavano nel frattempo - aumentava. E qui avvenne un episodio davvero eroico. Lo zio prete si gettò in ginocchio davanti al Comandante, chiedendogli di liberare gli ostaggi e di fucilare lui in cambio. Io stesso, dalla finestra di casa, vidi la scena nel cortile antistante la canonica, e vidi di persona le lacrime sul volto dello zio prete. Beh, sarà stato perché era lui ad ospitare - seppure involontariamente - il comando tedesco; e perché come persona, si era guadagnato il loro rispetto con la sua autorità morale, sta di fatto che il Comandate tedesco graziò lui e anche tutti gli ostaggi.
Chissà, forse giocò qualche ruolo - nella decisione dello zio prete - il fatto che fra gli ostaggi ci fossero due suoi nipoti, figli cioè di sua sorella...ma io ritengo che lui, quel gesto, l'avrebbe fatto lo stesso, per amore dei suoi parrocchiani. La persona aveva quella tempra, e l'episodio è ricordato anche nella lapide della tomba dello zio prete, nel Cimitero di Masone (lui era poi morto di malattia una dozzina d'anni dopo).
Il bombardamento delle "Reggiane" (8 e 9 gennaio 1944)
Come ho detto, mio padre allora lavorava come disegnatore tecnico alle officine "Reggiane", un'azienda di alto valore strategico, visto che vi si producevano treni e aerei militari, quindi mezzi di trasporto di grande importanza per qui momenti. Ma proprio perché gli Alleati erano al corrente di questa produzione, arrivò inevitabilmente un poderoso attacco aereo, con tante bombe che, in due notti, ridussero le Reggiane ad un cumulo di macerie. Noi assistemmo al bombardamento da lontano, al sicuro sotto le grosse mura del campanile di Masone. Ma riuscivamo bene, attraverso le vetrate colorate della sagrestia, a vedere i lampi e le fiamme del disastro, in quella fredda e limpida notte invernale, e naturalmente riuscivamo anche a sentirne i rumori cupi e terrificanti. Sapevamo che tante persone morivano, in quei momenti. E sapevamo anche che il lavoro di mio padre non ci sarebbe più stato…
Poi, due mesi dopo, credo con l'aiuto - ancora una volta - dello zio prete e della Curia vescovile di Reggio, mio padre trovò fortunatamente un nuovo lavoro, come impiegato comunale presso il Municipio della città. E questo fu il lavoro che svolse per il resto della sua vita, fino all'età della pensione.
La liberazione
La liberazione, per Masone, arrivò il mattino del 24 aprile 1945. I miei ricordi di quella mattina sono vivi e nitidi, e li ho riportati nel mio memoriale privato. Va bene, è privato, ma qualche passo lo posso anche riportare qui. E lo faccio, riportando tale e quale il capitoletto della Liberazione.
Avevo 8 anni, non abbastanza per capire quello che stava succedendo in Italia e nel mondo, ma abbastanza per avere ricordi – pochi, ma ancora nitidi e precisi (così almeno mi sembra: non vorrei confondere memoria e immaginazione…).
Che qualcosa stesse per succedere ce ne eravamo accorti anche alla chiesa di Masone, da quello che accadeva al comando tedesco.
C’erano movimenti convulsi, ordini improvvisi, dialoghi concitati…i tedeschi ovviamente sapevano che stavano per arrivare gli Alleati.
Il 23 aprile i tedeschi se ne andarono improvvisamente dalla chiesa. Se ne andarono tutti di sera, in gran fretta, portandosi via quello che potevano (qualcuno diceva anche delle mucche, ma ne dubito, perché avrebbero rallentato la loro ritirata).
La mattina del giorno dopo mi svegliai presto. Dormivamo tutti nella stessa stanza, e il babbo, alzandosi, fece rumori che mi svegliarono. Lo seguii lungo la scaletta che scendeva a pianterreno, e lo vidi montare su una sedia per guardare fuori dalla finestrella ovale che c’era allora nel muro verso la strada. Io stesso, dalla sommità della scala, potevo intravedere cosa succedeva fuori.
Cominciava appena a fare giorno, e in quella mezza luce si vide arrivare una camionetta militare: erano naturalmente gli americani. Loro non sapevano ancora, con certezza, che i tedeschi se n’erano andati del tutto qualche ora prima, perciò erano molto guardinghi. Due soldati con l’elmetto scesero furtivamente dalla camionetta, e si appostarono dietro le colonne del sagrato, sulla strada. Altri due, sempre molto cautamente, vennero verso la canonica, con le armi in braccio e comunque coperti da quelle dei primi due, dietro le colonne.. Giunti alla porta della parrocchia, si guardarono ancora intorno a lungo, poi suonarono il campanello, sempre coi fucili pronti.
Ad aprire andò, credo, Rolando (il famiglio dello zio prete), seguito subito dopo dallo zio stesso. Noi non vedevamo direttamente, perché l’angolo del muro nascondeva la scena, ma sentivamo lo zio parlare coi soldati, cercando di far capire loro che i tedeschi non c’erano più.
Poco dopo gli americani, tranquillizzati, se ne andarono (verso la Via Emilia, dove c’erano tutti gli altri, scoprimmo poi).
In pochissimo tempo, direi in pochi minuti, si sparse subito la voce, fra i nostri vicini e per tutto il paese, generando una enorme eccitazione generale. E tutto il paese si riversò verso la via Emilia, per andare incontro ai liberatori e far loro festa.
Io dovetti aspettare un po’: il tempo di servire Messa, detta all’altare di San Giacomo, a sinistra per chi entrava in chiesa dall’ingresso principale. Non c’era quasi nessuno: lo zio prete, la Maria (la perpetua), la Davolia e mia madre , mi sembra di ricordare. E io, naturalmente. Impazientissimo, ma ligio al mio dovere di chierichetto.
Finita finalmente la Messa (molto breve, ma credo anche molto sentita, dallo zio e da chi c’era!), mi precipitai anch’io verso la Via Emilia – il forno e il mulino dei Benati, la villa degli Stefani, la macelleria, la privativa, la Casa del Fascio…
E lì, finalmente, vidi anch’io gli americani, che arrivavano con le loro camionette. Procedevano molto lentamente, in mezzo ad ali di folla che si accalcava intorno al loro gridando di gioia. E sì, mi sembra proprio di ricordare, facendo quello che poi abbiamo visto in mille documenti filmati dell’epoca: regalando sorrisi e sigarette e cioccolato alla gente…
Il comando americano non si installò in parrocchia, bensì in un campo fra Castellazzo e Marmirolo, un paio di chilometri da noi, sotto tende militari.
Alla chiesa venne - un paio di volte - un militare americano cattolico. Si chiamava Edward (o meglio, lo chiamavamo così perché era più facile, ma il suo vero nome, che ho ritrovato in una vecchia agendina, era HOWARD EINHOUSE, e abitava al n.1370 di Gladys Ave. a Lakewood, Ohio). In un italiano stentato, parlò più volte con i miei (lasciò anche il suo indirizzo: dopo la guerra il babbo gli scrisse, e scambiarono corrispondenza per un po’. Ma era laborioso, perché si doveva far tradurre le lettere, e altrettanto doveva fare l’americano a casa sua, e così la cosa piano piano finì…).
Edward lasciava il fucile fuori dalla porta della chiesa, appoggiato al muro, ed entrava pregare. Molto concentrato, molto devotamente.
Arrivò finalmente il 25 aprile, e l’annuncio della fine della guerra. Noi lo apprendemmo dalla radio, di pomeriggio, mi sembra. Edward in quel momento era in chiesa. Aspettammo che uscisse, e poi gli dicemmo, tutti eccitati, che la guerra era finita. Non dimenticherò mai la sua espressione di entusiasmo quando capì quello che gli dicevamo: dapprima cauto, poi incredulo, e poi finalmente impazzito di gioia. Buttò letteralmente in terra il fucile, che nel frattempo aveva ripreso, si inginocchiò in terra e si mise a pregare, un po’ ridendo e un po’ piangendo, stringendo al cuore la foto della sua famiglia che aveva tolto da una tasca….
Questo è il mio ricordo più vivo del 25 aprile.
Dopo quel giorno successero tante cose, che ora non cerco di raccontare. Anche brutte, molto brutte (le vendette dei partigiani, le esecuzioni sommarie eseguite quasi sotto i nostri occhi…). Sì, la guerra era finita, ma ci volle un po’, un bel po’ per tornare alla normalità. Una normalità che peraltro io conoscevo ben poco: ne eravamo usciti qualche anno prima, quando io ero troppo piccolo per ricordare.
Pochi mesi dopo il nostro trasloco a Masone, nell'ottobre del 1942, cominciai la scuola elementare. Avevo ancora 5 anni, per qualche mese, ma mio padre riuscì a farmi accettare lo stesso.
Dei primissimi anni di scuola ricordo ben poco. Ci andavo a piedi, essendo abbastanza vicina, diciamo un chilometro. Prima però dovevo servire Messa, alle 7 della mattina: per lo zio prete io ero il chierichetto giusto, abitando lì nella canonica, ed essendo io anche moralmente obbligato nei suoi confronti, visto che ci ospitava gratis…
Ricordo anche che nei mesi fra aprile e ottobre, quando andavo a scuola, ci andavo scalzo, portandomi però dietro le scarpe, che mi mettevo solo per entrare in classe. Tutto questo per consumare il meno possibile l'unico paio di scarpe che avevo, scarpe dunque molto preziose.
L'anno scolastico 1942-43 fu abbastanza regolare. Non così quello del 1943-44, in cui il numero dei giorni di lezione fu molto basso, a causa di vari problemi (allarmi, indisponibilità degli insegnanti, ecc....).
E l'anno 1944-45, in cui la sede della scuola era stata trasferita nel vicino paese di Castellazzo perché la nostra era stata danneggiata dalle bombe, credo di essere andato a lezione una ventina di volte in tutto l'anno.
Più regolari furono i due anni successivi, a guerra finita.
I documenti che mi restano sono le pagelle e una foto scolastica.
Pagella Prima Elementare (fronte) |
Pagella Prima Elementare (retro) |
Pagella Quinta Elementare (fronte) |
Pagella Quinta Elementare (retro) |
Classe IV Elementare |
C'erano la scuola e i compiti, c'erano i servizi religiosi, c'era anche l'aiuto che davo a mia madre in casa, ma avevo anche molto tempo libero, da bambino. E giocavo, giocavo con i miei amici quanto più possibile. La chiesa era un punto di raccolta normale, per i ragazzi. Non c'era un oratorio vero e proprio, ma i bambini vi erano benvenuti, e il sagrato della chiesa era un luogo di giochi più che naturale, per lunghe partite a palla. Già, perché il pallone vero e proprio - a parte le dimensioni eccessive per i piedi e la testa di noi bambini - era un oggetto costoso, e talmente raro da essere di fatto fuori della nostra portata. Quindi giocavamo a palla. E sempre rigorosamente scalzi, almeno da marzo a settembre (sotto i piedi avevo una cotenna di un centimetro....). Per lungo tempo la nostra palla, a calcio, fu...una pallina da tennis, spelacchiata al punto da essere diventata nera, il colore della gomma che c'era sotto. Modestamente ero bravino, a giocare a palla, e quando si facevano le squadre capitava spesso che la squadra avversaria pretendeva di giocare con un "uomo" in più perché fra i loro avversari c'ero io. Ma avevamo anche altri giochi. Molti con le figurine, che raccoglievamo cercando di completare i relativi album, questi sì, molto facili da trovare (album dei ciclisti, dei motociclisti, degli automobilisti, delle squadre di calcio...). E ci giocavamo le figurine o andandoci il più vicino possibile lanciando ciascuno la sua “piastra” , o lanciandole vicino ad un bersaglio, o sospingendole fuori dal bordo di un tavolo facendole sovrapporre, ecc…
Con le figurine marcavamo poi anche il fondo dei coperchi della bottigliette di aranciata, coperchietti che lanciavamo con un "cricco", lungo piste disegnate in terra.
Altro gioco, le biglie di vetro colorato, che lanciavamo su piste ricavate nel terreno.
E poi si faceva anche qualche marachella, tipo andare - di nascosto dai genitori - a nuotare nei fossi, (ovviamente nudi perché poi saremmo tornati con le mutande bagnate...). O addirittura a rubacchiare frutta (mele, pere, ciliegie, albicocche...) dai contadini vicini, eludendo cani da guardia che li avvertivano abbaiando nel pomeriggio canicolare, quando i padroni riposavano...
(Pesco ancora , almeno in parte, dal mio memoriale).
Leggere è sempre stata una mia grande passione, fin da bambino. Mi è sempre piaciuto fantasticare, e la lettura, da bambino, ne era la forma più facile (ovviamente niente Internet né TV, ma anche praticamente niente cinema, poca radio e solo dall’apparecchio di casa, chi ce l’aveva…che altro? Le favole raccontate dai grandi, i giochi e - appunto – le letture).
Però qui mi conviene separare almeno alcuni grandi generi di lettura.
I li bri
I fumetti
Le riviste e i giornali
Con che cosa ho cominciato? Non ricordo con precisione. Direi che all’inizio, probabilmente, la cosa più facile era guardare figure, sui pochi giornali e sulle poche riviste che capitavano in casa. Un flash: un catalogo di abbigliamento (biancheria?) che la mamma, sarta, aveva in casa.
Credo di aver imparato a leggere ancora prima di andare a scuola (oggi è molto comune, ma allora no. E forse proprio grazie a questo ho cominciato la scuola prima di aver compiuto 6 anni).
Comunque avrò quasi certamente cominciato a leggere sui libri, in particolare sui libri di scuola.
Ci si creda o no, mi piacevano da matti. Ed ero pieno di felicità quando, appena prima dell’inizio dell’anno scolastico, arrivavano in casa i libri nuovi. Li guardavo, li toccavo, e aiutavo il babbo ad incartarli gelosamente (abitudine conservata per molti anni: in particolare con una certa carta lucida di colore blu, anzi, color “carta da zucchero”). E li leggevo avidamente, e guardavo le poche figure, e fantasticavo e imparavo. Ho continuato ad amare i libri di scuola per molto tempo, fino almeno alle soglie dell’Università. Poi mi sono piaciuti anche quelli dei miei figli, e ancora oggi mi piace – quando capita – sfogliare un libro di scuola: adesso peraltro sono belli, colorati, interattivi, e ti insegnano cose in modo semplice e ordinato, come piace a me.
Ovviamente, il godimento era massimo coi libri di fantasia, in particolare quelli di avventure.
Non sfuggii al rito di “Cuore” (anzi, come si diceva allora, del “libro Cuore”). E naturalmente impazzii presto per i libri di E.Salgari.
Il problema era procurarseli. La scuola – tempi di guerra! – non aveva praticamente una biblioteca, e a Masone non ce n’erano. Ogni tanto il babbo me ne procurava uno alla Biblioteca Comunale di Reggio, altrimenti dovevo mendicarli dove li trovavo: a casa dei miei compagni di scuola più abbienti, Alberto Vaccari o Alberto Benati, o perfino nell’ufficio dello zio prete (libri di religione! – ma presto imparai a cercare i passaggi pruriginosi della Bibbia….).
Altro discorso quello dei fumetti, che nella mia infanzia si chiamavano i “giornalini”. Anche questi ho cominciato a leggere presto, avidissimamente. L’unico problema era trovarli. Di comprarli neanche a parlarne, perciò li mendicavo da qualche amico più fortunato di me. In prestito, ovviamente.
E forse ho già parlato, in questo mio memoriale, dei personaggi dei miei primi fumetti. Il Vittorioso, cui avevo accesso più facile per il legame dell’editore con la Chiesa. E i fumetti e i personaggi di Jacovitti (Pippo, Palla e Pertica; Zagar;…). Poi Il “Corrierino dei Piccoli”…E , piano piano, anche quelli di W. Disney (ma allora se ne vedevano pochini, in giro), con i suoi personaggi (Topolino, Paperino con i nipoti, ecc…).
E poi quelli di “avventura avventura”, piccoli, fatti a striscia: Mandrake, l’Uomo Mascherato, Gim Toro,….
Il terzo filone di lettura era quello delle riviste.
Da bambino praticamente ne conoscevo una sola, la “Domenica del Corriere”. La comprava lo zio Alide,e talvolta ce la passava, una volta letta. Me lo ricordo a letto, a fare la pennichella, alla domenica pomeriggio quando andavo con la mamma a trovarlo. Spesso lo svegliavamo noi, comunque aveva sempre sul petto la sua “Domenica” con la copertina azzurra, aperta per la lettura. C’erano articoli, e foro e disegni – bellissimi – di Achille Beltrame e, anni dopo, di Walter Molino.
Ecco, agli appunti che ho riportato sopra, presi - come ho detto - dal mio memoriale privato, aggiungo solo una cosa. Io leggevo dappertutto e in qualunque momento mi capitasse qualcosa sottomano da leggere. Ma il massimo della concentrazione e del godimento lo provavo nei pomeriggi estivi, quando cercavo di sfuggire alla calura andandomi a stendere pancia in giù sul gradino dietro la cappella di Santa Teresa, dietro la chiesa. Il gradino era di granito rosa, ed era meravigliosamente fresco. E io ci stavo a lungo, a leggere e a fantasticare, nella magia di un silenzio quasi assoluto. Niente rumori di auto, di moto, di aerei, di voci... Salvo, a intervalli lunghi, il passaggio di un treno.
Per il resto qualche cane che abbaiava in lontananza, e il frinire della cicale.
Solo poche righe per rievocare il fascino che aveva allora la campagna intorno a Masone.
Le case dei contadini erano distanziate l'una dall'altra, ciascuna con il suo podere, piccolo o grande che fosse.
Gli appezzamenti di terreno erano riquadrati, da filari di alberi (spesso olmi, ma anche alberi da frutto o altri), che poi servivano anche da sostegno per le viti. Per riquadrare il terreno si usavano anche fossi o canaletti, che ovviamente servivano per l'irrigazione.
Ci sarebbe da scrivere interi libri , per parlare della vita nelle campagne e nei campi - vita delle persone, ma anche degli animali e delle piante.... Ma a me restano negli occhi, negli orecchi e nel cuore il verde della vegetazione, il silenzio (silenzio "vivo", peraltro) e la sensazione di pace.
Anche oggi mi piace molto la campagna. E mi piace ripensare di tanto in tanto alla poesia "L'infinito" di Leopardi, che descrive perfettamente i sentimenti che la campagna mi ha sempre ispirato.
Non devo registrare niente di eclatante per questo biennio. I fatti più rilevanti sono:
- la guerra è finita, e la vita può riprendere un corso normale
- credo anche come conseguenza di ciò, nasce anche mio fratello Anselmo
- anche la scuola acquisisce un ritmo normale. A giugno del 1947 finisco le scuole elementari (v. pagella)
- mio padre compra un pianoforte verticale usato, e io comincio a studiarlo (vedi la parte Musicale di questo sito)
- muore mia zia Wally, di tifo
- vado al mare per la prima volta in vita mia, con mio padre. Andiamo in treno a Pietra Ligure, dove saremo ospitati da una cugina di mio padre, che vive là, col marito (infermiere all’Ospedale Santa Corona) e tre figli (Amos, Evandro e Pupo). Ho tenuto delle foto, di quel periodo
- Nel corso di uno stupido gioco con una scala a pioli mi rompo un dente incisivo, dente che poi mi dovrà essere tolto completamente. Non ci sono dentisti nè cure possibili a portata di mano e di borsa, e mi terrò la bocca come resta, lasciando che la dentatura si assesti da sola, occupando lo spazio lasciato. Il che mi porterà ad avere i denti tutti storti: la cosa mi cambierà in seguito l'espressione, la voglia di sorridere e - credo - in qualche modo anche la vita. Ma tant'è....e - per una serie di ragioni lunghe da spiegare qui - mi terrò per tutta la vita la dentatura così.
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In questo periodo succedono naturalmente diverse cose. Qui segnalo:
due anni dopo Anselmo, nasce anche mia sorella Clementina- e così siamo quattro figli
muore invece il mio nonno materno Antonio (occhi azzurrissimi, uomo tranquillo). Era un trovatello, al quale era stato dati il cognome “Miragalli”. Uomo tranquillo, taciturno ma amabile, faceva il muratore e fumava la pipa.
Finita, come ho detto, la scuola elementare, e godutomi anche una vacanza straordinaria (al mare, senza compiti per le vacanze), vengo iscritto alla Scuola Media Inferiore. Che però non è a Masone, bensì a Reggio città. E che mi costringe a prendere un treno tutte le mattine, e poi un altro per tornare al pomeriggio. Oppure, con la buona stagione, ad andarvi e ritornare in bicicletta, sempre insieme a mio padre.
E' un ambiente completamente nuovo e diverso. I miei nuovi compagni di scuola non sono quegli stessi di giochi, di Masone. Con l'eccezione di uno di loro, Alberto Benati, sono invece tutti sconosciuti, e provengono un po' da tutta la provincia. Non c'è più un solo insegnante - il maestro o la maestra - ma ci sono i professori delle varie discipline. E c'è da lavorare sodo, più di prima.
Ma a me studiare piace,e mi ci butto a capofitto. Mio padre ha una buona idea: ha come collega di lavoro, in Municipio, la madre - vedova - di un ragazzo che frequenta la mia stessa classe, Franco Moleterni. Franco è un ragazzino sveglio, ma gracile e svogliatello, e - a casa tutto il giorno, solo con una vecchia zia - non è molto portato a concentrarsi sullo studio. Così mio padre concorda con sua madre che io, finite le lezioni del mattino e pranzato con lui (mio padre) alla mensa comunale (sotto i Portici della Trinità, in Piazza del Municipale - allora!), vada a casa di Franco Moleterni, in Via del Pozzo, e lì faccia i compiti insieme a lui. Più tardi, all'uscita dal suo lavoro, verso le 17, mio padre passa a prendermi, così andiamo insieme alla stazione,dove riprendiamo il treno per Masone. Il sistema funziona molto bene: io faccio il viaggio accompagnato da mio padre, senza pericoli; quando arrivo a casa, verso sera, ho già fatto i compiti, e posso studiare il pianoforte (vedi oltre) o ancora per la scuola media o fare altro; e anche Franco ha già fatto i suoi compiti ( un po' trascinato da me, devo dirlo. Lui vorrebbe spesso giocare, ma io sono un rompino ligio al dovere: prima i compiti, e poi il gioco. E infatti troviamo anche il tempo di giocare, con figurine o altro, di leggere fumetti...Franco ha anche inventato un gioco strano: ha tirato una corda fra due pareti del salotto e vi ha appeso una specie di fagotto ovale ripieno di stracci, che poi noi usiamo come “punching ball”. Il fagotto anche un nome: si chiama "Lollombrigido", dal nome di una bellissima attrice che in quel periodo turba i nostri sogni, Gina Lollobrigida. Ma il nostro fagottone ha una "m" in più, per distinguerlo...).
Questo schema - al mattino a scuola, al pomeriggio a casa di Franco e poi a Masone col babbo - funziona per quasi tutto il periodo delle scuole medie inferiori, cioè per quasi 3 anni. Talvolta, per ragioni particolari (es. Franco ammalato, o per mie lezioni di musica in orari strani), non posso andare da lui. E allora mio padre mi sistema nell'Archivio del Municipio, uno stanzone all'ultimo piano, pieno di scartoffie, un po' fantozziano, dove non viene mai nessuno. L'unica persona è un anziano impiegato, buono e un po' sordo, che si chiama Prati, e che mi lascia studiare tranquillo, seduto ad una delle scrivanie ingombre di carte....
Solo nell'imminenza dell'esame di terza media, esame che si prospetta impegnativo, specie per me che ho anche lo studio del pianoforte (v. sempre oltre), mio padre mi trova un'altra sistemazione: vengo messo "a pensione" presso una famiglia, quindi dormirò a Reggio e andrò a Masone solo a fine settimana. La famiglia si chiama Stefani e abita in via Guasco, di fianco alla chiesa della Ghiara. Il padre fa il barbiere, la madre credo la casalinga, e ci sono due figli, Giuliano (più grande) e Pierluigi, mio coetaneo. Per darmi modo di studiare anche musica, gli Stefani accettano che io porti lì anche il pianoforte. Sarà per il disturbo che questo dà, o per questioni di pelle, ma io non mi trovo molto bene, e soprattutto non vado d'accordo col figlio più giovane (col quale, poi, anni dopo, troverò invece una buona intesa....i casi della vita...).Poi, come Dio vuole, l'anno passa, e io finisco anche la terza media. Posso aggiungerlo? ma sì, finisco la scuola con un ottimo profitto, come era avvenuto anche nei tre anni precedenti. Però non sono il migliore della classe: davanti a me c'è Oscar Ferroni, un ragazzo molto serio e studioso, molto bravo, che credo stesse in città ospitato in qualche collegio. Non ne ho mai più saputo nulla. Però ne ho un preciso ricordo, oltre che il volto su ben due foto, foto scolastiche di fine d'anno della prima e della terza media. Eccole.
Prima Media |
Terza Media |
L'anno successivo mi iscrivo al Liceo Scientifico. Non ricordo il perché di questa scelta, che forse è più di mio padre che mia. Ma a me sta bene. La scuola è in Piazza San Giovannino. Ahimè, Franco Moleterni non è più con me, perché si è iscritto a Ragioneria (farà molta strada, lungo questo percorso: si diplomerà, poi si laureerà in Economia e Commercio e diventerà Presidente della Camera di Commercio di Reggio - un carrierone. Io lo ritroverò, per un po', intorno ai 22-23 anni, poi lo perderò di vista. Purtroppo morirà ancora giovane, di malattia).
Io però lo rimpiazzo con un altro amico, Arturo Monfredini, che era già con me alle Medie e che adesso è in classe con me al Liceo. Farò con lui quello che facevo con Moleterni, cioè andrò a fare i compiti da lui al pomeriggio, e mio padre mi passerà a prendere da lui, in via Samarotto, per portarmi con sè alla stazione e tornare a casa a Masone.
I miei ricordi di questo periodo ricadono anche nella parte musicale della mia vita, e ne ho già parlato , appunto, nella Sezione Musicale" di questo sito.
Non aggiungerò dunque molto altro. Sì, studiare anche musica, in questi anni, mi risulta francamente faticoso. Sarà la scomodità logistica, con l'andirivieni continuo fra Reggio e Masone. Sarà che, in questi primi anni, la soddisfazione di studiare musica è davvero modesta, fra scale ed esercizi e Teoria e Solfeggio....E sarà anche perché pure a me, come ai miei coetanei, piacerebbe stare tanto tempo a giocare a palla e alle figurine, a girare in bicicletta, a leggere libri d'avventure e fumetti,...E' un fatto che faccio davvero fatica, a continuare con la musica. E ho spesso voglia di piantare lì....se non fosse per le pressioni - a volte neanche dolcissime - di mio padre a resistere e continuare.
Curiosamente, le poche soddisfazioni che la musica mi dà nascono dal fatto di suonare in chiesa. Suono l'armonium, durante la Messa, accompagnando il canto dei fedeli o anche da solo, nei momenti adatti della funzione. E poi comincio a suonare ai matrimoni, guadagnando anche qualcosina. E il massimo del godimento arriva con la grandi cerimonie religiose del Natale, della Pasqua e della Sagra di Masone (San Giacomo,il 25 luglio). Qui allora comincio a suonare via via con complessi orchestrali e corali più numerosi, belle Messe di Perosi e di Vittadini,....una meraviglia, suonare insieme ad altri.
Dopo la funzione religiosa, lo zio prete mi premia, invitandomi a pranzo al tavolo dove siedono tutti i preti invitati per la circostanza. Specialmente il 25 luglio potevano essere tanti, perché i preti del vicinato si ruotavano fra di loro, avendo ciascuno la sua sagra, sfalsata rispetto alle altre. E io, ancora bambino o tutt'al più ragazzino, mi trovavo in questa allegra compagnia clericale, in un'atmosfera vagamente felliniana (ma allora Fellini non era ancora conosciuto), ad ascoltare e mangiare e bere e ridere insieme a tanti preti. Fra i quali c'erano spesso uno o più dei cinque preti che lo zio, orgogliosamente, vantava di aver allevato nella sua parrocchia: Don Carretti, Don Bottazzi, Don Salami (in seguito parroco di San Giovannino), Padre Silvio Cappellini (frate Cappuccino) e Don Dino Torreggiani, diventato poi decisamente importante (lo si trova su Google).
Tra parentesi, io non ero ancora in grado di apprezzare la qualità della cucina, ma so che si mangiava benissimo: la Maria (la perpetua) era incredibilmente brava e organizzata, per servire pranzi così sontuosi per un numero così alto (anche 10 o 15 persone) di invitati.
La frequenza presso le Scuola Media di Reggio (allora in "Piazza d'Armi", di fianco alla chiesa di San Francesco) mi diede la possibilità di una vacanza in una colonia comunale, cosa che sfruttai per due anni.
La prima volta fu al mare, alla colonia di Marina di Massa. Era una colonia molto grande, e io ero veramente un pulcino in mezzo a tanti altri e anche a tanti galletti (c'erano anche gli studenti della terza media, magari anche ripetenti, e quindi ben più grandicelli). Ma mi piacque, nonostante gli inevitabili momenti di "nostalgia di casa". Il mare - anche se per bagni rari e brevissimi - era pur sempre una bella evasione, rispetto alla routine cittadina. E poi c'erano gli amici, con i quali mi piaceva tanto stare e giocare... Ricordo un gioco particolare, menzionato anche nel libro autobiografico di F. Guccini: lanciare, dalla piega fra braccio e avambraccio, un pezzo di filo di ferro piegato ad anello ad una estremità, cercando di farlo cadere dritto e piantarsi verticalmente nelle sabbia… Ho una fotografia di quell'estate.
Colonia Marina di Massa |
La seconda volta andai invece in montagna, alla colonia d Busana. E fu bello anche questo. Ho tre ricordi distinti.
La visita di mio padre. Lontano da casa, sentivo anche quell'anno un po' di nostalgia. E mi fece un grande piacere vedere un giorno arrivare mio padre, che veniva a trovarmi. Anche di quel giorno ho una foto. Però, poi, quando arrivò la sera e mio padre dovette ripartire con l'autobus per Reggio il mio magone diventò molto, molto grande...
La coda del diavolo. La Direttirce della colonia, una donnina seria e intransigente, aveva un debole per me. Mi considerava uno scavezzacollo, e forse un po' di ragione lo aveva, perché bello vivace lo ero davvero. E mi aveva battezzato "coda del diavolo", per le birichinate che combinavo. Però diceva quella frase con una grande simpatia, e lo fece anche quando mio padre venne a trovarmi. Il giorno in cui lo pronunciò con maggiore simpatia fu quando io composi, in qualche modo, l' "inno dell colonia" (cioè cambiai le parole e ad una canzone allora in voga, adattandole all'argomento "colonia" e rispettando rima e metrica). Lei e anche miei compagni ne furono talmente contenti e fieri che mi portarono letteralmente in trionfo, sollevandomi sulle loro spalle. Non mi era mai successo...e la Direttrice sorrideva compiaciuta, continua a dire "Mah, questa coda del diavolo..."
Colonia Busana |
Mirella
Quando uscivamo, almeno un po' inquadrati, a camminare per le vie del paese o nei dintorni, capitava di incontrare altre persone. E fra queste cominciò ad attirare la mia attenzione una ragazzina, che era in villeggiatura a Busana con la sua famiglia. Era una ragazzina molto carina, e mi sembrava che ricambiasse i lunghi sguardi che io le rivolgevo. Io mi ero subito innamorato di lei: un colpo di fulmine, basato solo su uno scambio di sguardi, un amore puro e assoluto, tipo quello di Dante per Beatrice. Un classico di quell'età…
E così feci il diavolo a quattro per riuscire a parlare, se non con lei (era difficile!) almeno con il fratellino che stava sempre con lei. Così appresi che si chiamava Mirella Viarengo, che lei e la famiglia abitavano a La Spezia, che erano lì in villeggiatura ancora per qualche giorno, e che, sì, anche la sorella - Mirella - mi trovava simpatico…
Quella notte, e anche quelle successive, dormii molto poco. E a cullarmi nel mio sogno dorato c'era la musica che entrava dal finestrone della colonia: non lontano ci doveva essere una specie di balera all'aperto, in cui mettevano su qualche disco per far ballare i villeggianti. Ma di dischi ne avevano pochi, pochissimi, perciò mettevano e rimettevano sempre gli stessi pezzi. Tre, in particolare, mi colpirono, e diventarono la colonna sonora della mia "storia d'amore" (platonico, mai dichiarato, stupendo) con Mirella. I pezzi erano "Moolight Serenade" di Glenn Miller, "Harbour Lights" (credo nella versione di Sammy Kaye - lo credo oggi, allora non lo sapevo), e soprattutto "Sleepy Lagoon", nella versione - direi sempre oggi - di Tommy Dorsey.
Naturalmente, di Mirella Viarengo poi io non seppi mai più nulla, ma quella canzone, quel brano, ha acquisito per me il significato della "madeleinette" per Marcel Proust, nella mia personale ricerca del tempo perduto - o almeno andato...
Nel corso dell'anno scolastico 1949/50 partecipo al "Concorso Veritas di cultura religiosa", con un tema assegnato dalla Diocesi ai partecipanti (volontari) di tutte le scuole. E lo vinco, per la mia scuola! Il premio è un viaggio a Roma, per l'Anno Santo. Vi partecipo insieme ad altri ragazzi e ad un gruppo di pellegrini reggiani. Si va in autobus, via Bologna e poi il Passo di Radicofani (terribile! in due o tre dobbiamo far fermare l'autobus per scendere a vomitare..). Allora non c'era l'autostrada....In uno dei piedi porto un sandalo anziché la scarpa, perché prima di partire mi ero fatto male ad un dito, giocando scalzo a palla, e mi era venuta un'infezione, per cui portavo impacchi di garza. A Roma siamo alloggiati in un convento. La città, naturalmente, mi strabilia: tutto così grande, e bello, e famoso....Però il giorno chiave, quello in cui dobbiamo entrare in San Pietro per vedere il Papa, il mio piede, a forza di camminare, si è gonfiato e mi fa male. Un frate che ci accompagna, e al quale sono stato affidato in custodia, come minorenne, si commuove e si attarda per curarmi un po' il piede.
Riusciamo comunque a correre, in ritardo rispetto ai compagni, a San Pietro, dove, essendo ormai prossima l'ora dell'udienza, ci fanno entrare di corsa insieme ai Maestri Cattolici, una cui rappresentanza ha addirittura posti prenotati proprio a ridosso della transenna circolare dietro la quale passerà il Papa, vicino all'Altare Maggiore. E così la mi disgrazia diventa la mia fortuna, e quella del frate mio accompagnatore: solo noi, fra tutti i reggiani, potremo vedere il Papa (Pacelli) così da vicino, quasi toccarlo.
Raccontato oggi, questo episodio può lasciare del tutto indifferenti, ma per me, allora un ragazzo provinciale, era come toccare il cielo con un dito. Avevo 13 anni, e credo che nessun altro tredicenne, a Masone, fosse ancora andato a Roma, e addirittura avesse visto il Papa da così vicino.
E qui, prima di chiudere questo capitolo dedicato alla mia vita a Masone ( nove anni, e per me decisamente importanti), voglio scrivere i nomi di alcune persone che in quel periodo ho conosciuto, anche da vicino. Alcune sono scomparse dalla mia vita e di loro non ho più saputo nulla, altre - molte altre, purtroppo - sono morte, ma di tutte conservo un ricordo abbastanza preciso, e i loro nomi voglio registrare qui, prima che venga buio nella mia memorie e nella mia mente.
A
B
Ballabeni, famiglia (era il casaro di Masone; la figlia Ulderica sposò Alberto Benati, di cui rimase vedova precocemente); Barbolini, famiglia (vicino alla chiesa, giù dal torrente Tresinaro; chiusi e gretti, possedevano forse l'unica auto del paese); Battani, famiglia ( la madre, levatrice; e i figli - Aristide, Francesco,Luigi); Benati, famiglia (erano però una famiglia allargata, con il mulino e la panetteria sulla Via Emilia; a scuola con me Alberto, anche in prima media; suo fratello Sandro e la madre Nella, molto bella; gli zii Ettore ed Emilio...); Bertani, Aronne, padre dei miei amici Gianni, che mio padre chiamava Bugianein, e Lodovico, monco di un dito per un infortunio un po’ pecoreccio); Bonacini, famiglia (c'erano due ragazzi gemelli, che venivano a scuola con me); Bottazzi, Ebe e il figlio Adriano;
C
Cappellini, famiglie (erano due, cugine fra di loro. Di una ricordo Franco, a scuola con me. Dell'altra, il patriarca Ermenegildo e la moglie; il frate Cappuccino padre Silvio, e poi il mio amico Francesco, sua sorella Zita e altre sorelle); Casali, famiglia (era "al paltein", cioè l'appaltino, cioè ancora il titolare della Privativa di Masone; in dialetto li chiamavano i "Ninòol", e c'erano due figli: uno, Giulio, veniva a scuola con me, l'altra, più grande, si chiamava Pierina ed era molto devota); Carretti, famiglia (a parte il loro zio prete, l'amico Bertino e le sua sorelle); Casoli, Enea e sig,ra Polda; Catellani, famiglia (ne proveniva la zia Renza, moglie di Archimede Miragalli, fratelli di mia madre); Consolandi, sig. (collega di mio padre);
D
Davoli, famiglia (abitavano lungo la strada del Castellazzo; un ragazzo veniva a scuola con me; un'altra Davoli, forse lontana zia, era la Davòlia, vecchia e devotissima signora, che veniva a Messa tutte le mattine, sicché in chiesa eravamo quasi sempre solo in 4: lo zio prete che officiava, io che servivo, la perpetua Maria e appunto la Davòlia);
E
F
G
Gadani, famiglia (mi sembra che in dialetto li chiamassero "Stimliin"; uno di loro, Achille, era a scuola con me); Galeotti, famiglia (venuti ad abitare vicinissimi alla chiesa; i ragazzi Rico e Dino, bravi bravi); Govi, famiglia (il vecchi patriarca con la cintura sotto la pancia; la nipote Alba, il mio primo amore, anche se lei non lo sapeva; l'altra nipote Gualberta );
H
I
Ideo, amico di cui però ricordo solo il nome.
L
Lusetti, Giovanna (in dialetto li chiamavano "Lóca");
M
Medardo ?(non ricordo se calzolaio o barbiere; aveva il naso grosso e deformato da una malattia, e perse tragicamente un figlio, giovanissimo partigiano); Miragalli, famiglia (la famiglia di mia madre...); Montanari, la famiglia proprietaria dello stabile dive abitavano i Miragalli; ricordo Glauco, giovanotto quando io ero bambino);
N
O
P
Q
R
Rosanna, ?( figlia di Fiorello, il calzolaio: io avevo 6 anni e lei 9, ma mi piaceva tanto…);
S
Salsi, famiglia; Stefani, famiglia (detti Giarein, lavoravano il marmo e monumenti funebri, sulla via Emilia; anni dopo, il ragazzo Giancarlo studiò Chimica incoraggiato un po' da me),
T
U
V
Vaccari, famiglia (il padre era medico, credo, e aveva una bella villa verso Marmirolo; io andavo a scuola col figlio Alberto, di cui ero amico e frequentava la casa, con tanti bei libri; ricordo anche il fratellino Toto e la sorellina Minnie; poi Alberto, pochi anni fa, ha dimostrato di non gradire il mio ricordo....amen); Vacondio, famiglie (erano due, lungo la via di Masone (via Calvetro?), forse imparentate; ma non ricordo nessuno in particolare);
Z
Verso la metà del 1951 si realizza un sogno: riusciamo ad ottenere una casa a Reggio. E' un appartamento in una casa del Piano ERP (European Reconstruction Programme), in Italia spesso chiamato "Piano Fanfani", nato per ridare la casa a chi l'aveva perduta durante la guerra. Agli assegnatari, scelti per concorso (basato su punteggi legati al reale stato di necessità) è offerta la possibilità di abitarvi in affitto, ma anche di un contratto "a riscatto", cioè un affitto maggiorato che darà diritto alla proprietà dopo 25 anni, una specie di mutuo. E così, finito l'anno scolastico, cioè in luglio, ci trasferiamo a Reggio, in Viale Piave. A me sembra una meraviglia. Siamo al secondo piano e senza ascensore, ma ci sono una cucina, un bagno vero e proprio (con la vasca!), un salone enorme e ben tre camere da letto, oltre ad una spaziosa cantina. A confronto con la casa di Masone è veramente un sogno. Per i miei genitori sarà la casa per la vita: mia madre, l'ultima a morire, lo farà lì, nel suo letto, nel 2000, dopo avervi abitato per quasi 50 anni. Noi figli invece ce ne andremo tutti, un po' alla volta.
Da quel momento, naturalmente, la mia e la nostra vita cambia parecchio. Le scuole (statale e di musica) sono vicine, vicino è il lavoro per mio padre....
La vita è sempre piuttosto dura, anche perché c'è solo lo stipendio del babbo, e ci sono ora 4 figli da mantenere. Ma l'economia del paese è in sviluppo, e piano piano riusciamo a migliorare il nostro tenore di vita. Certo, dobbiamo fare sacrifici. Mia madre fa ancora lavoretti di sartoria, e anche mia sorella impara a fare camicie. Io, da parte mia, comincio a guadagnare qualcosa, e anche più di qualcosa, con la musica (v. questo sito, Sez. Musicale). E i miei si arrabattano, arrivando, dopo qualche anno, a prendere a pensione un'insegnante, la prof. J. Campo, e poi anche uno studente, S. Cane. Loro occupano una stanza ciascuno e mangiano con noi.. Tanto, a stringerci eravamo abituati: così i miei fratelli dormono coi genitori, e io dormo su un divano letto in sala da pranzo. Ce la faremo, siamo convinti. E ce la facciamo.
Nell'anno 1949-50 comincio il Liceo Scientifico, e adesso che abito a Reggio la vita è più facile. Vado ancora, spesso, a casa di Arturo a fare i compiti: la sua casa è molto vicina alla mia.... Oppure, talvolta, viene lui da me. E poi andiamo a giocare nel cortile della parrocchia, che adesso è San Pietro.
Della I^ Liceo ho qualche ricordo: le compagne (le medie inferiori erano classi solo maschili o femminili), il preside Mattioli e l'episodio del bidello in fondo alla classe, il prof. Rigamonti, ......
Vedrò di cercare qualche altro documento. Alle fine dell'anno scolastico la famiglia di Arturo Monfredini si trasferisce a Milano, e io perdo un amico caro. Andrò poi a trovarlo a Milano l'anno dopo, e poi lo ritroverò ancora molti anni dopo, quando andrò io a lavorare a Milano (1972). Ma poi lo perderò ancora.....
In II^ Liceo cambiamo aula, e cambiamo anche qualche insegnante. In Lettere, al posto del prof .Rigamonti (con cui avevo un bellissimo rapporto), avrò la prof.ssa Bonincontro, con cui invece il rapporto sarà pessimo. Ma il mio profitto, in generale, resta molto buono. Poiché , evidentemente, senza amici non riesco a stare, comincio a frequentare in particolare Franco Verona.
Anche in III^ Liceo cambiamo aula e insegnanti. Quello di Lettere è il prof. Pieralisi.
In IV^ la scuola si trasferisce in quella che allora si chiamava "Via dei Ciechi", nello stesso edificio del Collegio Dante e vicino all'istituto Magistrale. E alla fine dell'anno io faccio anche l'esame , appunto, di Licenza Magistrale, da privatista (v. oltre)
E arriva la V^ Liceo, con il sospirato Diploma. Fatico molto, studiando insieme a Franco e Vasco Vandelli. Ma alla fine arriva il premio: proprio il Premio Germano Manghi di miglior maturità scientifica (v. l'Annuario del Liceo).
Classe IV Liceo |
Classe V Liceo |
Premio Germano Manghi |
Durante il periodo del Liceo contribuisco alla pubblicazione della rivista scolastica. E' un giornaletto che viene pubblicato una volta all'anno, verso la fine dell'anno scolastico, ed ha le caratteristiche di tutte le rivistine scolastiche come lei: prendere un po' in giro colleghi e anche gli insegnanti (con tocco leggero...), rievocare episodi, salutare chi sta per finire gli studi liceali....All'inizio la pubblicazione si chiama "Radice Quadrata", ed ha anche quache pretesa tipografica - carta lucida, anche varie foto...Poi i fondi vengono a mancare, e la rivista diventa una serie di fogli ciclostilati e pinzati insieme, senza foto....Cambia anche nome: si chiama "Telescopio". In quarta Liceo io ne divento, diciamo, il Direttore Responsabile. Poi l'anno dopo passo la palla, com'è consuetudine, a qualcuno della Quarta, dato che la preparazione per la maturità impegna troppo. Ho tenuto qualche numero di quelle riviste e dei miei articoli, e di tanto in tanto li guardo con tenerezza... Aggiungo che poco tempo fa, nel 2016, un gruppo di noi ex liceali (tre dell’allora IV° A, Roberto Bosisio, Remo Perteghella, Paolo Zannoni e io) ha realizzato un video in cui rievochiamo, con conversazioni, interviste, foto, filmetti, musica… il loro 60mo anniversario della Maturità. E’ stato un lavoro faticoso ma divertente.
Radice Quadrata |
Telescopio |
Sembra solo un gioco di parole, ma non lo è: parlo ancora di riviste scolastiche, ma stavolta non si tratta di pubblicazioni, bensì di spettacolini di varietà organizzati da noi studenti. Lo facevano , più o meno, tutte le scuole Medie Superiori di Reggio, e naturalmente lo facevamo anche noi dello Scientifico, in gara con le altre scuole. Perché di una vera e propria gara, si trattava: qualche istituzione cittadina ci prestava il teatro (il San Prospero) per qualche giorno, e le varie scuole dovevano mettere in scena il loro spettacolo, a rotazione, di pomeriggio. Ovviamente l'ingresso era gratuito, e tutti gli studenti delle Superiori di Reggio erano invitati ad assistere. Anche a questa iniziativa partecipai attivamente, curandone la parte musicale. Dalla Terza alla Quinta, infatti, dirigevo l'orchestrina che accompagnava lo spettacolo, orchestrina ovviamente formata da colleghi, soprattutto di una classe (non era la mia, bensì di un anno più giovane, la IV°A di cui parlavo sopra: una classe molto attiva, compatta, allegra e piena di talenti.). Un anno feci anche un numero sul palcoscenico, come protagonista, con un collega (Paolo Zannoni) come spalla.
Eccoci qua |
Nell'anno in cui frequento la IV^ Liceo, a mio padre viene un dubbio: e se io, alla fine del Liceo. non fossi in grado di proseguire con l'Università, cosa ci farei con il solo diploma di Maturità? La domanda non è del tutto peregrina: il diploma di Maturità, nel mondo del lavoro, viene considerato una tappa intermedia, e di per sé non vi costituisce un importante titolo di accesso. D'altra parte, la situazione economica in famiglia, per quanto migliore di qualche anno prima, non è comunque particolarmente rosea. Mia madre non guadagna quasi nulla, inchiodata al suo ruolo di moglie e madre di 4 figli. Mia sorella, che - come ho detto - lavora presso una camiciaia, guadagna anche lei ben poco. E gli altri fratelli sono ancora piccoli, e crescono, e con loro crescono i loro costi. In questo quadro, l'idea che io non possa ancora cominciare a lavorare per affrontare invece altri anni di scuola all'Università fa tremare un po' i polsi alla mia famiglia.
E così, dietro suggerimento di una delle mie professoresse del Liceo che mi vuole particolarmente bene (la prof.ssa Calandra, insegnante di Chimica: che Dio l'abbia benedetta), in breve tempo si decide che io mi iscriva, da privatista, all'esame di Licenza Magistrale. Se ce la faccio. alla fine avrò un titolo che - questo sì - garantisce in pratica un posto sicuro (allora!), da insegnante alle scuole Elementari. E così comincio a studiare davvero forte: il programma dell'ultimo anno di Magistrali coincide in parte con quello della V^ Liceo, ma io faccio solo la IV^.... Bene, stringo i denti e mi presento all'esame. Sarà perché il livello di preparazione data da un Liceo è superiore a quello delle Magistrali; sarà che, per puro miracolo, la prof.ssa Calandra è Commissaria esterna proprio agli esami Magistrali, e quindi nella Commissione che mi esamina; sarà che sono anche un po’ (un po' tanto!?) fortunato, beh, riesco ad essere promosso. Non solo: ma ottengo un punteggio così alto da costituire la miglior media fra tutti gli altri candidati (o meglio, le altre candidate, dato che erano quasi tutte ragazze). Diciamolo pure, non è una cosa tanto importante. Ma è pur sempre il risultato di un mio impegno particolare, di cui sicuramente nessuno si ricorda più - e lo voglio ricordare almeno io, prima che venga del tutto cancellata.
Nel 1954 Trieste venne restituita all'Italia, in seguito ad accordi internazionali. Il Provveditorato agli Studi di Reggio organizzò un "pellegrinaggio", al quale parteciparono simbolicamente tutte le scuole della città, ciascuna delle quali con uno studente e un insegnante. Io fui lo studente che rappresentò il Liceo Scientifico in quell'occasione. Una cosa bella e commovente. Al ritorno ci fermammo a visitare l'Ossario di Redipuglia, e riuscii a commuovermi di nuovo davanti a tutti qui "presente" scolpiti sui gradini. Ero proprio un romantico.
6.6 Tempo libero
In tutto il periodo del Liceo di tempo libero ne ho avuto piuttosto poco: lo studio, infatti, mi impegnava molto. E parlo di studio per il Liceo, per l'esame di Abilitazione Magistrale (v. sopra) e naturalmente della musica - argomento per il quale rimando alla Sezione Musicale di questo sito. Tuttavia, un po' di tempo libero riuscivo a trovarne. E lo passavo più o meno così:
L'oratorio. La mia parrocchia era San Pietro, e la frequentavo regolarmente, con le solide convinzioni religiose che avevo sviluppato negli anni precedenti. Ero iscritto all'Azione Cattolica (non era ancora arrivato Zucchero a sparlarne), e giocavo spesso a palla, nel cortile dell'Oratorio. Fra i miei compagni di giochi c'erano anche i fratelli Prodi (fra cui il futuro Presidente del Consiglio, Romano), i quali abitavano a cento metri da casa mia. Altri nomi: Sergio Aguzzoli, Vittorio Cenini, Giulio Cesare Barozzi, Giorgio Pastori, Franco Boiardi, il vecchio parroco piccolo e curvissimo Mons. Pasi, il curato dinamico e severo don Alfredo Ravanetti, l'assistente don Claudio Iori (prete meraviglioso)....
Sport Ero in buona salute e il mio fisico mi consentiva una buona attività, ma non ero un grande sportivo. Giocavo a calcio, come ho detto, e andavo in bicicletta, facendo lunghe gare con i miei amici. A scuola, in Educazione Fisica, la mia performance era normale, nè più nè meno. Me la cavavo alla corda, alla sbarra verticale e nella corsa veloce, molto meno nella corsa campestre.
Letture. Tempo, ripeto, ce n'era poco, ma leggere mi continuava a piacere. E. come sempre, un po' di tutto. Soprattutto libri di narrativa (i francesi, gli americani, i russi...). Ma anche riviste. A 14 anni, usando parte dei miei piccoli guadagni "musicali", cominciai a comprare regolarmente una rivista che uscì proprio allora, "Visto".
Cinema. Il cinema già mi affascinava prima, ma prima rappresentava veramente un lusso. Adesso, abitando a Reggio città, era più a portata di mano. e, sempre compatibilmente con i quattrini a disposizione, cominciai ad andarvi un po' più spesso. Passando, naturalmente, anche attraverso l'esperienza dei Cineclub, per spendere poco (però i film erano un po' tipo "La corazzata Potiomkim" di fantozziana memoria...).
Amici. Sono sempre stato, come dire, amico dell'amicizia, e il periodo dell'adolescenza è un tipico periodo da abbuffate di amicizie. Ne ho avute tante che non riesco nemmeno a contarle, Ma, fra tutte, alcune sono diventate (e poi rimaste a lungo) amicizie più profonde. Prima e più importante di tutte, quella con Raul Marmiroli. Era mio vicino di casa e "compagno di cortile", era quasi esattamente mio coetaneo, era mio compagno di scuola (ma non di classe), era generoso, onesto, intelligente, educato.....Diventò presto il mio amico del cuore, e - ripeto - lo rimase a lungo, lo è ancora...Fra l'altro, anticipando gli eventi. fece il servizio militare con me, fu il mio testimone di nozze e il padrino di mia figlia, e infine diventò mio cognato....
Ma devo registrare altri amici . Uno, anch'egli a lungo molto caro, è stato Gianni Giroldi: mio compagno per tutto il Liceo, e poi per il periodo universitario, e ancora per un paio d'anni sul lavoro in Montecatini (v. sez. Professionale di questo sito), nonché - anche lui - mio testimone di nozze. Poi la vita ci ha separato: io a Roma, lui a Ravenna, dove è rimasto per sempre. Ci siamo rivisti più volte, in seguito, e ci parlavamo spesso al telefono, rievocando tempi felici. La morte me l'ha portato via improvvisamente, mentre camminava nella pineta di Ravenna: un bella morte, se vogliamo, senza dolore e senza angoscia, ma l'angoscia ce la siamo poi trovati la sua famiglia e anch'io, che ricevetti un sms da suo figlio mentre ero in vacanza in Costarica. Mi manca moltissimo.
Altro amico caro che non posso non menzionare, diventato tale durante il Liceo, è stato Franco Verona, mio regolare compagno di banco per anni, e con il quale (insieme al povero Vasco Vandelli, morto in uno stupido incidente pochi mesi dopo) preparai l'esame di Maturità Scientifica. Allora era normale fare così, preparare gli esami insieme a qualcun altro, interrogandiosi a vicenda....
Mi piace annotare qui che in anni recenti Franco Verona è diventato una gloria cittadina dopo aver tradotto in dialetto reggiano la "Divina Commedia" e anche il "Canzoniere" di Petrarca.
Altre amicizie che nacquero in quel periodo furono quelle con il ragazzi della IV^A (quando io facevo la V^ B: insomma erano un anno indietro, e nell'altra Sezione, quella di tedesco, mentre la B era di inglese). Una classe fantastica, che ho già nominato qualche paragrafo fa. Affiatati, intelligenti, allegri, portati alla musica...al punto che fu nel loro vivaio che pescai i miei colleghi musicisti per l'orchestrina della scuola, oltre che i miei eredi per la gestione della rivista Telescopio. Ancor oggi tengo con loro un bel rapporto di stima e amicizia: Roberto Bosisio, Paolo Fiori, Umberto Guiducci, Remo Perteghella, Anna Spaggioni, Paolo Zannoni ...tutti affermati professionisti, forse qualcuno un po' provato dalla vita, ma sempre allegri e pronti a far bisboccia fra di loro e anche con me...
Ragazze e festicciole,.... Beh. se è vero che quella dell'adolescenza è l'età delle amicizie, non può essere meno vero che è anche l'età dell'amore, dei primi amori, e comunque della scoperta dell'altro sesso. E qui non sono stato da meno degli altri: ho avuto anch'io le mie simpatie, le mie cottarelline e cottarellone, e ho scoperto che la donna è spesso un essere meraviglioso, da guardare, da ascoltare e anche da abbracciare e…
Perché non mi bastava sognare le attrici più in voga nel periodo, addirittura disegnandole
Gina Lollobrigida |
Marilyn Monroe |
Non sarebbe elegante nè cavalleresco che io elencassi qui nomi e cognomi delle ragazze di cui mi sono - un po' o tanto - innamorato, nè tantomeno quelle che stringevo strettamente e volentieri nelle festicciole da ballo che organizzavamo in casa dell'uno o dell'altro. Solo qualche nome in ordina sparso - e senza graduatorie né cognomi - più che altro per sfidare la mia memoria fin che ne ho un po': Rosanna, Paola, Daniela, Graziella, Vanna, Giovanna, ....Già, come non ricordare quelle festicciole con un giradischi rimediato laboriosamente, con pochi - pochissimi - dischi e le canzoni che cominciavano ad arrivare dall'America? Questo è un capitolo che non si chiuse con la fine del Liceo, e proseguì invece per tutto il periodo universitario, sia pure con altra frequenza, altre modalità e altro "spessore".
Questa parte coincide con il periodo dei miei studi universitari, durante i quali feci sostanzialmente due cose: studiare, appunto, per l'Università, e suonare - il pianoforte o l'armonium - per potermi pagare le spese associate alla frequenza universitaria (le tasse riuscii quasi ad evitarle del tutto, grazie al mio buon profitto e alla media alta, ma restavano comunque i libri, i materiali di laboratorio, i viaggi fra Reggio e Bologna, la mensa scolastica...), oltre naturalmente a quelle mie personali e a quel po' di contributo che potevo dare in casa per il resto della mia famiglia. Per quest'ultima attività, quella musicale, rinvio comunque alla Sezione - appunto - Musicale di questo sito.
7.1 La scelta della Facoltà e dell'UniversitàLa scelta della facoltà fu naturalmente oggetto di riflessioni e discussione già negli ultimi mesi di Liceo. Essendo il mio un Liceo Scientifico, era abbastanza scontato che non scegliessi facoltà "letterarie": me la cavavo bene anche in queste discipline, ma sarebbe stata una lotta dura contro i cervelloni del Liceo Classico...Dopo varie eliminatorie, restavano Ingegneria e Chimica, con le loro specializzazioni. E fini per scegliere Chimica: Ingegneria era ambita da molti, forse troppi, dei miei compagni. La mia amata professoressa Calandra mi raccomandava caldamente la "sua" Chimica, e per di più avevo letto da qualche parte che l'Italia, da lì a qualche anno, si sarebbe trovata ad aver bisogno di molti Chimici, specie Industriali, visto che la facoltà esisteva da poco e di laureati in Italia ce n'erano pochi. Così mi decisi per Chimica Industriale: non "leggera" come Chimica Pura (4 anni), bensì "pesante" come Ingegneria (5 anni), ma diversa e più nuova. E la scelta della facoltà comportò quasi automaticamente la scelta dell'Università: Bologna, l'unica ragionevolmente vicina a Reggio, frequentabile con un viaggio giornaliero in treno di un'oretta per andare e altrettanto per tornare. Detto, e fatto: sono iscritto a Chimica Industriale a Bologna, e mi faccio subito un bell'abbonamento al treno.
7.2 Il primo impatto: la goliardia
Naturalmente le novità, appena iniziata l'università, erano tante. Le classi variabili, ad esempio: per ciascuna materia non c'era una classe fissa per aula e per composizione. Gli allievi venivano se e quando volevano e potevano, e cambiavano da materia a materia. Ed eravamo noi allievi a cambiare aula, non i professori. E poi i libri: carissimi, se e quando c'erano. Se no, dispense, molto care anch'esse. Ma contava la frequenza, e prendere appunti, e in questo divenni presto bravino.
Comunque la cosa che mi colpì subito, fin dai primi giorni, fu il ruolo e il peso della goliardia: la caccia alle matricole (come me...) cominciò fin dal primo giorno. E dovetti spendere parecchio tempo, e anche un po' di denaro (in sigarette) per procurarmi un "papiro" decente, accompagnato da u numero sufficiente di "codicilli" importanti, per non dover subire scherzi pesanti, al limite della vessazione.
Ci dovetti mettere, come gli altri, del resto, anche un po' di astuzia, tipo uscita dalle lezioni un po' prima o un po' dopo, per evitare i "fagioli" o gli anziani in attesa davanti alla porta. O evitare percorsi pericolosi...Ma poi anche questa prova fu superata, e prima della fine del primo anno arrivò la "festa della matricola" (con questua proficua fra i bolognesi simpatici e sorridenti, con ingresso gratuito in qualunque sala cinematografica, panini e/o bevande gratis nei bar...) a suggellare la mia raggiunta maturità goliardica. Un rito di passaggio, che oggi sembra del tutto scomparso, ma che aveva allora radici secolari.
Ecco la foto del mio cappello universitario e del mio "papiro" con codicillo, con tutte le loro sconcezze
Cappello universitario |
Papiro e codicillo |
Il treno che prendevo quasi tutte le mattine partiva alle 6.30. Per fortuna abitavo vicino alla stazione, così potevo alzarmi anche alle 6. Però spesso avevo ancora sonno, e così dormivo un po' in treno, durante il viaggio lunghetto fino a Bologna: i sedili, nella terza classe di quell'"accelerato", erano di legno, duri e scomodi, ma mi tiravo sulla faccia la tendina dello scomparto o del finestrino, e riuscivo a dormicchiare un po'. Nel dormiveglia, mi arrivava da lontano gli annunci con i nomi di tutte le stazioncine - tante! - che si incontravano prima di Bologna.
A volte invece studiavo, specie in prossimità degli esami. Altre volte ancora si chiacchierava fra colleghi che prendevano lo stesso treno, se non si faceva addirittura una partitina a carte.
Al ritorno, nel tardo pomeriggio, non c'era bisogno di dormire, perciò si chiacchierava o si studiava: allora non c'erano né telefonini, né lettori di mp3, e neanche ancora Walkman o lettori di CD...
Per tutto il periodo universitario Mi pagai tasse e spese con la musica, suonando in chiesa (matrimoni, messe,...) e - anzi soprattutto - nei locali da ballo (circoli, tante balere, feste dell'Unità, ...). Ho già parlato di questo argomento nella Sezione Musicale di questo sito, pertanto è là che invito l'eventuale lettore ad andare a vedere.
7.5 Tempo libero
Per questo argomento posso rinviare , almeno in parte, a quanto ho scritto qui sopra, al capitolo 06.06. Ho detto almeno in parte, perché qui si deve tener conto della mia età: adesso non ero più un teenager, bensì un giovane adulto, già maggiorenne a tutti gli effetti (patente, voto, ecc...). Di conseguenza, tutte le relative voci vanno adeguate.
Due parole soltanto sull'argomento"Ragazze e festicciole". A vent'anni gli ormoni sono molto attivi, e anche i pensieri amorosi diventano più seri. Ci si comincia addirittura a chiedere: "Ma con questa ragazza non forse il caso di fare sul serio? Non potrei anche pensare di sposarle e di metterci su famiglia?". E le "cotte" diventano naturalmente più robuste (Antonella, Adele, ...).
Ormai le cose principali le ho scritte. Avanti e indietro in treno fra Reggio Emilia e Bologna, cercando di frequentare tutte le lezioni possibili, oltre che - naturalmente - i laboratori. Qualcuna la salto, o perché impegnato a preparare esami o perché ho fatto troppo tardi, la sera precedente, andando a suonare con l'orchestrina in luoghi lontani da casa.I miei compagni di corso reggiani sono Gianni Giroldi, Mario Manzotti e Mario Moro. Il biennio iniziale lo facciamo insieme ai colleghi di Chimica "Pura", a Bologna in Via Belmeloro. Poi noi di Chimica Industriale, una sessantina in tutto, ci trasferiamo alla sede di Porta Saragozza.
Ricordo i nomi - o almeno i cognomi - di alcuni altri colleghi: Amidei, Vincenzo Balzani, Bertoni, Bertuzzi, Gianna Borghesani, Brizzi, Brunelli, Bruni, Camaggi, Ercole Cavalieri, Cimarelli, Dal Signore, Donatelli, Flisi, Francesconi, Garagnani, Gelosi, Grosso, Lippolis, Lucci, Moles, Passalidis, Sevini (o Favini?), Lino Taglioni, Torre, Vaglio, Zanaboni.
Fra questi nomi sottolineo in particolare quelli di Vincenzo Balzani, che ritrovo molti anni più tardi quando è diventato uno scienziato talmente illustre da sfiorare il Premio Nobel per la Fisica (v. su Google) e di Lino Taglioni, che qualche anno più tardi diventerà mio Cliente, come dirigente del Gruppo Shell Temana, quando io lavorerò in pubblicità.
1956, studenti I° anno facoltà di Chimica |
I quattro moschettieri reggiani: Manzotti, Ghizzoni, Moro, Giroldi |
E ricordo anche i nomi di alcuni insegnanti:
Bonino, Cappellina, Carassiti, Dal Monte, Camillo Dejak, Maria Domeniconi, Annamaria Ghe, Gualandi, Malaguti, Angelo Mangini, Marinangeli, Mazzei, Morisi, Onofri, Risaliti, Salvetti, Tartarini, Tundo
Verso la fine dell'ultimo anno, in tre di noi (Giroldi, Manzotti e io) prendiamo in affitto una stanza a Bologna e ci fermiamo lì per alcuni mesi, per non perdere troppo tempo in viaggio da e per Reggio e per preparare la tesi di laurea (Gianni e Mario in laboratorio, io presso lo Stabilimento Montecatini di Bologna, per la mia tesi impiantistica).
Preso com'ero dagli impegni musicali, non sono riuscito a laurearmi entro ottobre del V° anno. Però riesco lo stesso a laurearmi in corso, nella sessione postuma di febbraio. Siamo al 28 del mese, e finalmente arriviamo al gran giorno, Gianni Giroldi e io. Va tutto secondo il copione: presentazione in aula, discussione della tesi con mio relatore, davanti ad una commissione un po' distratta, poi si alza il Presidente, il prof. A. Mancini, e mi dichiara solennemente Dottore in Chimica Industriale.
Ciliegiona sulla torta, "110 e lode", aggiunge. Quando esco, mio padre - che mi aveva accompagnato, Dio l'abbia in gloria - non capisce più niente, e abbraccia tutti quelli che sono fuori in corridoio, bidelli compresi.
Il mio sogno, che non è più un sogno, non poteva finire meglio.
Tesi di Laurea |
Certificato di Laurea |
(N.B. questa parte è in corso di ulteriore elaborazione)
Tutto il seguito, a oggi altri 56 anni, mi sembra che passi molto in fretta. La mia vita è presa dal lavoro ( e per questo rimando alla Sezione Professionale), in parte dal mio hobby principale (V. Sezione Musicale) e naturalmente dalla mia famiglia, della quale non parlo, come preannunciato.
Mi limito quindi, sempre come preannunciato, a fare cenno ad alcune voci, in ordine un po' cronologico, un po' sparso, più che altro per commentare qualche foto che mi sembra valga la pena di pubblicare.
Marzo 1961. Sontuosa festa di Laurea, in casa mia.
Festa di Laurea |
Festa di Laurea |
Luglio 1961. Vacanza in Francia con Gianni Giroldi ed Egidio Turrini, come premio di laurea.
Viaggio a Parigi |
Viaggio a Parigi |
Viaggio a Parigi |
Febbraio 1965. Mi sposo, con Ada Ferrari. (e siamo ancora felicemente insieme).
1966 e 1967. Nascono i nostri figli
1972. Milano San Felice, primo round
1976. Ritorno temporaneo a Reggio Emilia
1978. Milano San Felice, secondo round
1983, ottobre: muore mio padre
1983-88. Collaborazione con Intercultura, come Responsabile della Comunicazione Esterna
1986-87.... Breve attività in campo politico, con il Partito Repubblicano Italiano
2000, ottobre: muore mia madre
Luoghi visti, per viaggi di lavoro o vacanze
Cose sempre piaciute
Amicizie
L'amicizia ha costituito una parte importante della mia vita: senza amici sarei già morto, almeno dentro.
Molti nomi di miei amici compaiono già nelle varie sezioni di questo sito, e chi lo ha letto avrà già capito che, via via nel tempo, ho sempre avuto amici particolarmente cari, diciamo amici "del cuore": Franco Moleterni, Arturo Monfredini, Franco Verona, Gianni Giroldi, Raul Marmiroli,... Però qui sento il dovere di aggiungere qualche altro nome, di persone diventate davvero "amiche amiche" negli ultimi anni e che finora non avevo elencato. Come quelli di Renato Camposano e di sua moglie Sulamita Bontempo, conosciuti molto tempo addietro ma poi felicemente ritrovati; di Giorgio Sicurella, di Renzo Barzizza, di Marisa Terzi...
Altre amicizie personali si sono sviluppate recentemente nei confronti di colleghi dell'Orto Comunale di Segrate e del gruppo di Volontari dell'Idroscalo: sono magari amicizie non particolarmente approfondite, ma che mi hanno reso e mi rendono più piacevole la vita di tutti i giorni, magari anche solo con un piccolo scambio di favori, o un gesto di generosità, o anche solo due parole gentili.
Social Media
Ebbene sì, da qualche anno ho cominciato a fequentare, i Social Media (Facebook, Linkedin, WhatsApp...). La mia adesione non è incondizionata, perché ne vedo anche i molti difetti e i pericoli. Tuttavia mentirei se non registrassi il fatto che, grazie ad essi, ho ritrovato molti vecchi colleghi e amici di tempi lontani. Non solo, ma ho anche visto nascere e svilupparsi altre amicizie sì virtuali, ma talmente sentite e profonde da non aver nulla da invidiare alle migliori fra quelle reali. Amicizie che, alla mia età, riescono a scaldare il cuore, come quelle - in ordine alfabetico di cognome... - con Bruno Angheben, con Luigi Maria Corsanico Nastasi, con Pier Fioresi, con Lorenzo Pieri…
Altri, molti altri nomi di amici e ancor più di amiche sono visibili sui mei profili Facebook e Linkedin.
Alla fine un'altra caterva di nomi?